venerdì 5 dicembre 2014

RENZI E L'ILVA: SI PREPARA UNA TRUFFA PER LAVORATORI, SALUTE, AMBIENTE

Renzi “nazionalizza” l'Ilva? No. Prepara una soluzione truffa, per cercare di disinnescare una mina sociale esplosiva. Una soluzione brillante per i profitti dei capitalisti , a carico dei lavoratori, della salute, dell'ambiente. La classica nazionalizzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti.

L'operazione è ancora in gestazione, ma appare chiara nel suo indirizzo di fondo. Ed è a incastro:

-Si scarica il fardello di debiti e contenziosi giudiziari dell'Ilva su una bad company, appositamente creata, a favore di una “new company” più appetibile per il mercato ( cioè per gli interessi dei capitalisti acquirenti). Alitalia è la bussola.
-Si potenzia il ruolo giuridico dell'attuale commissario, con la modifica ad hoc della legge Marzano, consentendo una amministrazione straordinaria controllata dell'azienda, e dunque il suo potere di vendita dell'Ilva.
-Si mobilita la Cassa Deposito e Prestiti per acquistare un pacchetto azionario di minoranza di una cordata capitalista interessata a sua volta all'acquisto dell'Ilva ( o la cordata Arcelor Mittal/ Marcegaglia o il gruppo Arvedi), per incentivarla all'acquisto.
-Si realizza infine la vendita dell' Ilva alla cordata capitalistica prescelta, con lo Stato socio di minoranza.

Chi guadagna da questa operazione?
I Riva, tuttora “legittimi” proprietari per il 90% dell'Ilva, che incasserebbero il ricavato della vendita ( si parla di diversi miliardi di soldi pubblici come solo prezzo di indennizzo). I gruppi capitalistici acquirenti che prenderebbero in mano un gruppo “ripulito” di pendenze ingombranti grazie all'aiuto delle risorse pubbliche. Le grandi banche, che avrebbero garanzia di incasso dei propri crediti scaricati sulla collettività. Il governo che strillerebbe ai quattro venti la “soluzione” della questione Ilva come riprova della propria attenzione al lavoro ( con l'occhio rivolto alle prossime elezioni).

Chi paga l'operazione?
I lavoratori, che cambierebbero padroni, senza alcuna garanzia sul proprio futuro, e che per di più dovrebbero accollarsi indirettamente i costi della “nazionalizzazione” ( a vantaggio di un gruppo capitalista criminale) al pari dei lavoratori di tutta Italia. La salute e l'ambiente, perchè nessuno, nella soluzione prospettata, si prenderebbe carico dei costi del risanamento ambientale e della riorganizzazione produttiva: nè i capitalisti acquirenti che anzi mostrano interesse all'acquisto solo se sgravati dai costi del risanamento; nè lo Stato, che piange miseria e impiega i soldi pubblici a vantaggio dei capitalisti, nel mentre taglia spese sociali, servizi pubblici, diritti dei lavoratori. Uno Stato che non riesce neppure a recuperare il miliardo e duecento milioni sequestrati dalla magistratura ai Riva, oggetto di ricorso giudiziario e dispersi nei paradisi fiscali di mezzo mondo.

Altro che “compiacimento” per “i nuovi” indirizzi del governo sull' Ilva, come dichiarano Camusso e Landini!

I fatti dimostrano che per coniugare le ragioni del lavoro, della salute, della vita, c'è una sola soluzione possibile: una nazionalizzazione vera. L'esproprio della proprietà dell'Ilva, senza alcun indennizzo per il gruppo capitalista criminale dei Riva. Il controllo operaio e popolare sull'azienda , sulla riorganizzazione del lavoro, sull'intero piano di risanamento ambientale. Il finanziamento di un piano reale di risanamento, che per la sola città di Taranto richiede non meno di 10 miliardi: risorse che vanno prese dai portafogli dei capitalisti, a partire dal rifiuto del pagamento del debito pubblico verso le banche ( 80 miliardi l'anno!), non certo da stipendi e pensioni di chi lavora e paga mutui e affitti. 
Ilva

La rivendicazione di esproprio senza indennizzo e sotto controllo dei lavoratori va estesa in realtà alla intera produzione siderurgica: è l'unica soluzione che può garantire non solo i lavoratori dell'Ilva, ma anche gli operai delle acciaierie di Terni e di Piombino, anch'essi attaccati da padroni criminali senza scrupoli, o “venduti” a nuovi pescecani. Una mobilitazione per la nazionalizzazione vera della siderurgia, sostenuta dalla occupazione delle relative fabbriche, potrebbe unire vertenze operaie oggi disperse e innescare una svolta di lotta dell'intera classe operaia italiana attorno a una rivendicazione unificante: le aziende che licenziano o inquinano, in ogni settore, siano espropriate e poste sotto controllo operaio, a garanzia della salute e del lavoro!

Non è una soluzione “compatibile” con il mercato? E' vero. L'interesse dei capitalisti non è compatibile con le ragioni del lavoro e della salute. Per questo è necessario battersi per un governo dei lavoratori che faccia piazza pulita di questa organizzazione barbarica della società.

Il Partito comunista dei lavoratori ( PCL) si batte tra i lavoratori e tutte le vittime del capitalismo per sviluppare questa consapevolezza. Lo crescita del PCL anche a Taranto e fra i lavoratori dell'Ilva è al servizio di questa prospettiva anticapitalista e rivoluzionaria.
PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI

martedì 2 dicembre 2014

CAPITALISMO DE-GENERE


violenza de genereIn merito alla terribile e attualissima questione della violenza di genere, ci preme intervenire nel dibattito proponendo una riflessione che parta da presupposti materialisti, storici e comunisti. 

Il nostro manifestare e mobilitarci contro la violenza sulle donne parte da un punto di vista classista, poiché riteniamo che il genere e la classe non siano categorie necessariamente escludenti. E' ben chiaro che la violenza di genere si esprime in modo generalizzato e univoco dagli uomini verso le donne, ma l'origine di questa vessazione non si risolve ricercando una natura psicologica (e meno che mai “patologica”) di un presunto comportamento maschile astratto e non storicizzato. Tale violenza permea tanto i quasi impercettibili aspetti della nostra esistenza quotidiana, manifestandosi come disparità nei rapporti familiari o discriminazione nel mondo del lavoro e nella sfera della salute (il banalissimo esempio della libera costruzione della propria sessualità, dell'accesso agli anticoncezionali o all'aborto sono solo la punta dell'iceberg), fino ad arrivare a espressioni più estreme e crude come lo stupro, la violenza domestica e l'omicidio. 

La storia dei rapporti tra i generi si intreccia in modo indissolubile con lo sviluppo della divisione sociale del lavoro e dunque con la costruzione delle sovrastrutture sociali che la nostra storia come umanità ha conosciuto. Per questo la violenza di genere è una costante attraverso diverse epoche, perché la storia umana è la storia di società divise in classi in cui una parte della società ne opprime un'altra e non in virtù di categorie non storiche che si pretenderebbero insite in astratte "nature" maschili o femminili. Il patriarcato è un abito che molteplici forme di organizzazione sociale hanno indossato con comodità e piacere (ma non per questo è universale), compresa la società attuale del capitalismo, proprio perché nato in legame con la divisione in classi della nostra società. Una riflessione sulla violenza di genere dunque non può prescindere da una analisi storica e critica della famiglia e di tutte le strutture sociali in generale (Chiesa e altre istituzioni religiose, Stato, ma anche la scuola, partiti ecc.). 
Nella nostra prospettiva il principio della violenza, tanto di genere quanto di classe, risiede nella proprietà privata ed è principalmente da essa che scaturisce. In questo senso, se la donna è proprietà dell'uomo, se è dunque un suo "oggetto", egli cercherà di disporne come vuole, con tutte le conseguenze che ci sono ben evidenti oggi. La violenza di genere non si risolve dunque "mettendoci la faccia" o chiedendo agli uomini di essere genericamente "migliori" ma includendo l'analisi femminista ad una prospettiva comunista di trasformazione strutturale e radicale della società. La società capitalista è una società di violenza istituzionalizzata in cui una minoranza esigua della popolazione espropria la maggioranza giorno dopo giorno costruendo su questo abuso la propria ideologia e morale. Questo tipo di società non è in grado di riformarsi in nessuno dei suoi aspetti, perché è costruita sulle fondamenta essenziali del profitto e della proprietà privata. E' di conseguenza del tutto inconciliabile con la liberazione dall'oppressione di genere, perché le sue radici affondano in quella divisione sociale del lavoro che ha origine anche nella nascita storica della famiglia e nella divisione di genere dei compiti sociali. 

Solo la conciliazione di una prospettiva femminista di liberazione della donna e delle minoranze di genere oppresse con la prospettiva generale della sollevazione degli sfruttati, degli espropriati, del mondo del lavoro contro la classe padronale può creare i presupposti reali della costruzione di una società senza divisione di classi, senza oppressioni, diseguaglianze e discriminazioni, e nell'alveo di questo processo storico, costruire nuovi rapporti sociali, che sono innanzitutto nuovi rapporti umani.

PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI SEZ. PISA







venerdì 28 novembre 2014

Il Giornale Comunista dei Lavoratori -Novembre 2014-



Il Giornale Comunista dei Lavoratori N°7 Novembre 2014
Editoriale di Marco Ferrando
L'attacco frontale all'articolo 18 segna una accelerazione politica del corso bonapartista del governo Renzi. Al di là del suo stesso contenuto di merito- Il merito è grave. Non si tratta di pura manutenzione della versione menomata di un diritto "già cancellato", come a volte si legge. Ma dell’eliminazione conclusiva della figura del giudice, quale ultimo appello del lavoratore illegittimamente licenziato. Si tratta in altri termini dell’effettiva libertà di licenziamento senza giusta causa, come Renzi peraltro ha pubblicamente rivendicato. Gli effetti pratici di tale misura sui rapporti di forza fra le classi sono tutt'altro che trascurabili. Tanto più in un quadro già segnato dalla crescita esponenziale dell'arbitrio padronale nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro. Il plauso ammirato di Fiat e Confindustria non è Casuale. Ma non si tratta solo di articolo 18. La scelta di Renzi é eminentemente politica. E' la scelta di chi reagisce alle proprie crescenti difficoltà di tenuta col rilancio di uno scontro sociale provocatorio con il movimento operaio, nel nome dell’interesse generale “ della nazione". E' il riflesso condizionato di un aspirante Bonaparte. La scelta parallela di una Legge di Stabilità che detassa il padronato, offre i bonus bebè, promuove l'anticipazione truffa del TFR in busta paga, è esattamente il manifesto del "partito della Nazione". Un partito reazionario e "popolare". Nemico dei lavoratori ma a caccia I dei loro voti.
IL COLPO D'ALA DI UN CAPO REAZIONARIO
Le difficoltà del governo ai piedi dell'autunno erano evidenti. L'effetto propagandistico "80 euro" era largamente evaporato sotto il peso della crisi e di nuovi balzelli. I sondaggi denunciavano un calo di popolarità del governo. Alcuni ambienti di grande borghesia accentuavano il proprio scetticismo per la politica autocentrata dell'annuncio. Gli accordi parlamentari con Berlusconi erano messi a rischio dalla guerra interna a Fl, con rischi di ricaduta sull'intera partita delle riforme istituzionali. Come reagire a questa tempesta perfetta'? Col colpo d'ala di un capo reazionario. L'improvvisa apertura dello scontro frontale sull'articolo 18 contro gli stessi sindacati non serve solo a esibire un trofeo in sede UE per cercare di ottenere spazio di manovra più ampio per la detassazione delle imprese (anche). Non serve solo a indebolire la fronda interna a Fl, nell'interesse della tenuta di Berlusconi e quindi del proprio accordo con Berlusconi (anche). Serve a rilanciare il richiamo populista attorno al capo. Serve a ricomporre attorno a se un blocco sociale reazionario anti operaio che sfondi nella piccola e media impresa così come nella gioventù precaria e disoccupata. Serve a rilanciare l'immagine dell'uomo forte senza paura che si rivolge alla "società civile" contro le resistenze della "vecchia politica" e dei "vecchi sindacati" nel nome del nuovo. E che usa il discredito della vecchia politica borghese e delle stesse burocrazie sindacali come leva di accumulo di consenso. Quando Ronzi dice che "D'Alema se non ci fosse bisognerebbe inventarlo" e che "la gente sta con noi e non coi sindacati", rivela la cifra della sua intera operazione. L'operazione è molto pericolosa. Chi a sinistra si era cullato nella rappresentazione tranquillizzante di un Renzi in continuità con Letta deve fare i conti con la realtà. Quella di una tendenza bonapartista qualitativamente nuova. Di una seria minaccia reazionaria per il movimento operaio italiano. Di un progetto di Terza Repubblica ritagliato su misura di un Capo.
IL DISARMO UNILATERALE DELLE SINISTRE
Le sinistre politiche e sindacali rivelano una volta di più nel nuovo scenario tutta la propria subalternità e inconsistenza. Sul piano politico va in scena il disarmo, lungo una interminabile catena di Sant'Antonio. La vecchia guardia borghese liberale del PD, umiliata da Renzi, tratta il prezzo della propria resa sulla pelle dei lavoratori per salvare la propria pelle. Naturale. “L’opposizione" interna al PD è in mano a un ex renziano "democratico" (Civati) che difende il proprio spazio di testimonianza a futura memoria. SEL che un anno fa si era sperticata nel cantare le lodi di Renzi quale "speranza della sinistra", oggi volge le spalle allo stesso spazio politico di cui potrebbe disporre a sinistra del PD per salvare la residua speranza di essere riconvocata alla corte del centrosinistra dal capo del PD. Con cui peraltro è alleata nelle giunte locali che licenziano i lavoratori (da Genova a Roma) e nelle elezioni amministrative di tutta Italia. Tsipras resta immersa nel caos delle sue insolubili contraddizioni, segnata dall'estraneità alla centralità del lavoro e della lotta di classe. Sul piano sindacale va in scena l'opportunismo. La burocrazia dirigente della CGIL, già responsabile di lungo corso per l'avanzata del renzismo, reagisce al cannone di Renzi col fioretto di scherma. Frasi indispettite. Obiezioni puntute. Nessuna seria azione di lotta, neppure e difesa della propria dignità di apparato e di burocrazia. L'obiettivo è giocare sulla dialettica interna al PD per provare a conquistare il "dialogo" col governo anti sindacale. La manifestazione del 25 Ottobre ha raccolto una grande domanda di opposizione. Ma Camusso non dà a quella domanda alcuna vera prospettiva di mobilitazione. Il vertice FIOM ha svolto tutte le parti in commedia. Da un lato difende l'articolo I8 contro l'attacco del governo. Dall'altro si è candidato a lungo a interlocutore privilegiato del governo più reazionario degli ultimi decenni. Un'enormità. Landini ha offerto per sei mesi una copertina preziosa a Matteo Renzi col manto della propria popolarità ( “difesa della truffa degli 80 euro, nessuno sciopero contro il decreto Poletti, valorizzazione del "governo del cambiamento"). L'obiettivo era ottenere una legge sindacale favorevole sulla rappresentanza (e scalzare Susanna Camusso). Renzi dal canto suo ha usato per mesi la propria relazione privilegiata con le FIOM per prevenire ogni opposizione operaia. Ora Lendini, scaricato da Renzi, evoca “l’occupazione delle fabbriche". Ma alle parole non seguono i fatti (v. acciaierie di Terni) e tutto sembra ridursi a una minaccia rivolta a Renzi per cercare di riconquistare il dialogo perduto ("dialoga con me, non con Marchionne"). Non sappiamo come finirà questo gioco. Sappiamo che non definisce una prospettiva di lotta per gli operai.
PER UN CAMBIO DI ROTTA
E' necessario e urgente un cambio generale di rotta. Un'altra politica. Un'altra direzione del movimento operaio e sindacale. Al progetto sociale e politico più reazionario degli ultimi decenni, è necessario contrapporre un'azione e un progetto di pari determinazione. Che punti ad unire l'azione di classe sul terreno della massima radicalità di lotta. Che eviti la dispersione di mille iniziative autocentrate a favore dell'unificazione delle forze. Che superi la soglia rituale delle manifestazioni di "dissenso" per imboccare la via della mobilitazione di massa prolungata, mirata realmente a vincere. Che incoraggi e promuova l'autorganizzazione di classe e di massa. Che rimuova, su un altro versante, l'eterna illusione di scorciatoie "antagoniste" per affermare la centralità della classe operaia e della lotta di classe quale leva decisiva di un blocco sociale alternativo e di una alternativa anticapitalista. Portare in ogni lotta questa visione generale é più, che mai le cifra della politica di massa del PCL. E la leva della sua costruzione e radicamento nell'avanguardia di classe.

lunedì 24 novembre 2014

STORIE DI RESISTENZA PALESTINESE

Tre film per testimoniare il genocidio perseverato da Israele in Palestina, tre appuntamenti da non perdere



19 NOVEMBRE ore 19:30 presso il CSA JAN ASSEN proiezione di
“SHOOT – THE FILM ” di Samantha Comizzoli, documentario sulla resistenza palestinese.
Seguirà videochiamata con Samantha Comizzoli dalla Palestina.Questo documentario nasce da immagini catturate con videocamera e telefonino durante i tre mesi di attivismo per i diritti umani che l’autrice ha svolto in Palestina con l’International Solidarity Movement. E’ una testimonianza sulla resistenza palestinese non violenta e sui crimini perpetrati da Israele. Il documentario dura all’incirca novanta minuti ed è arricchito da alcuni filmati del reporter palestinese Odai Qaddomi, fotografo e videoreporter nelle manifestazioni di Kuffr Qaddum.
“Sono andata in Palestina come attivista per i diritti umani con l’International Solidarity Movement. Non ero lì per fare un film, ma facendo interposizione non violenta e filmando i crimini di israele sul popolo Palestinese, ho pensato che avere della documentazione importante e con la mia prospettiva potesse essere utile per chi non conosce la Palestina. La prospettiva è quindi la mia, mentre ci sparavano addosso filmavo o con una videocamera non professionale o con il telefonino. Volevo fare un documentario strutturato come un film, ed un bel film, che potesse piacere a tutti, anche a chi non interessano i diritti umani. Un monumento alla Resistenza non violenta e a tutti coloro che difendono i diritti umani.Si ambienta in Cisgiordania (West Bank) che è una realtà diversa da Gaza, lontana dai bombardamenti, ma con violenze ed umiliazioni quotidiane. Gli attacchi che si vedono nel film, pertanto, non sono lo scenario di repressione da parte della polizia per una manifestazione; ma è ciò che accade tutti i giorni e tutte le notti in ogni angolo della Cisgiordania. In film ha una parte introduttiva, un nucleo che sfocia in due focus (uno sul villaggio di Kuffr Qaddum e uno sul villaggio di Asira) ed un finale dove si capisce il titolo del film.
Solo alla fine si capisce il messaggio che volevo dare. La parte riguardante Kuffr Qaddum è stata arricchita dai video del fotoreporter Odai Qaddomi, e qui la prospettiva è la sua, diversa. Il montaggio di Simonetta Zandiri è spettacolare, proprio come lo desideravo.
Anche se il film è violenza, arrivate alla fine per capirlo e riempitevi gli occhi così come accadde a me”.
——————————————————
3 DICEMBRE ore 19:30 presso RIFF-RAFF proiezione di
“5 BROKEN CAMERAS” di Emad Burnat e Guy Davidi.
Una straordinaria opera di attivismo sia cinematografico che politico, 5 Broken Cameras è un resoconto profondamente personale e di prima mano della resistenza non violenta messa in atto a Bil’in, un villaggio della Cisgiordania minacciato dallo sconfinamento degli insediamenti israeliani. Girato quasi interamente dall’agricoltore palestinese Emad Burnat, che ha acquistato la sua prima videocamera nel 2005 per registrare la nascita del suo figlio più giovane, il film è stato montato da Burnat e dal co-regista israeliano Guy Davidi. Strutturata intorno alla distruzione violenta di ognuna delle videocamere di Burnat, la collaborazione dei realizzatori segue l’evoluzione di una famiglia in cinque turbolenti anni che hanno scosso il villaggio. Burnat osserva da dietro l’obiettivo i suoi alberi di ulivo minacciati, le proteste che si intensificano e le vite perdute. “Mi sento come se la videocamera potesse proteggermi…ma è un’illusione”. Nel 2005, quando le manifestazioni contro il muro sono iniziate, Emad ha ottenuto la sua prima videocamere e ha iniziato a filmare gli avvenimenti del villaggio. Ha anche ripreso la sua vita personale e familiare non pensando che questo avrebbe fatto parte in futuro di un fllm. Per gli anni successivi lo scopo di Emad non era quello di fare un film, ma ha girato per molte altre ragioni: in primo luogo è stato un modo per partecipare alle manifestazioni, portare testimonianze tangibili ai media e sul web, ma anche per proteggere le persone finite in tribunale, quando i suoi video sono stati usati come prove. Tutto il film è un appassionante e struggente squarcio della vita di un uomo, della sua famiglia, del suo villaggio, all’interno della lunga e dignitosa lotta del popolo palestinese per la libertà dall’occupante.
——————————
14 DICEMBRE ore 19:30 presso CSA JAN ASSEN proiezione di
“THE IRON WALL” di Mohammed Alatar
“La colonizzazione sionista nella terra di Israele deve o arrestarsi o continuare senza considerare la popolazione locale palestinese. Questo significa che può continuare e svilupparsi solo sotto un governo che sia indipendente dalla popolazione locale, dietro un muro di ferro che la popolazione locale non potrà attraversare” con queste parole, nel 1923, Vladmir Jabotinsky, padre della destra sionista, indicava la strada per la colonizzazione della Palestina. Il documentario di Alatar illustra le conseguenze della presenza degli insediamenti dei coloni israeliani e del Muro sulla vita quotidiana in Palestina, dando voce ad analisti politici e attivisti per i diritti civili, sia Palestinesi che Israeliani. Inizialmente il processo di pace era basato su una semplice formula: Terra in cambio di Pace, una soluzione che prevedeva due stati per due popoli. Ma la crescente presenza degli insediamenti e del Muro (di Apartheid) sono la prova dell’impossibilità di una tale soluzione. The Iron Wall ripercorre le tappe della colonizzazione Israeliana dei Territori Palestinesi in cui la costruzione del Muro non è che la fine di un progetto di pulizia etnica iniziata negli anni ’20.

venerdì 21 novembre 2014

OLTRE IL 12 DICEMBRE

Lo sciopero generale convocato da CGIL e UIL per il 12 Dicembre contesta le politiche del governo Renzi, ma riflette la debolezza dell'azione sindacale e un vuoto di prospettiva. 

Le burocrazie sindacali manifestano il “dissenso” senza organizzare una lotta vera. Si limitano a replicare al rifiuto di “ascolto” del governo nel nome dell'apertura del “dialogo”. 

Ma un'azione di pura pressione ordinaria sul governo Renzi non corrisponde alla gravità dell'attacco portato ai lavoratori , finisce col subordinarsi di fatto ad una logica emendativa, ed è priva oltretutto di sbocchi credibili: a fronte di un corso politico reazionario apertamente contrapposto al movimento operaio e sindacale. 

E' necessario un salto dell'azione del movimento operaio e sindacale per contrapporre ala determinazione reazionaria del governo una forza di massa uguale e contraria, dentro una mobilitazione prolungata e radicale. L'unica che può piegare governo e padronato . 

Il 12 dicembre deve segnare un punto di svolta. Di fronte alla prevedibile intransigenza del governo e alla continuità del suo attacco, va promossa una grande assemblea nazionale di delegati eletti nei luoghi di lavoro, in tutte le categorie, per definire una risposta di lotta di pari radicalità e una piattaforma di mobilitazione unificante, oggi clamorosamente assente. Una piattaforma che leghi la rivendicazione del ritiro incondizionato delle misure governative a un piano più generale di obiettivi e soluzioni alternative. Una piattaforma di lotta che possa essere realmente un punto di riferimento riconoscibile per i lavoratori, i precari, i disoccupati, e perciò stesso strumento essa stessa della mobilitazione di massa più ampia. 

Solo questa svolta unitaria e radicale di lotta può ribaltare i rapporti di forza e strappare risultati reali ; mettere in crisi il renzismo e lo stesso blocco sociale che va raggruppandosi attorno al populismo reazionario di Salvini e settori di destra; aprire dal basso una prospettiva politica di reale alternativa.

15 ottobre 1

martedì 18 novembre 2014

INTERNAZIONALISMO PROLETARIO PER SUPERARE IL RAZZISMO DEL CAPITALE


Matteo Salvini è solo l’ultimo, in ordine di tempo, ad usare in maniera provocatoria e violenta lo strumento dell’odio razziale per dividere ulteriormente la classe proletaria e accelerare un processo di conflitto interno al mondo degli sfruttati, usati uno contro l’altro per annientarsi a vicenda.
La realizzazione  della divisione del mondo del lavoro, e quindi della società, in compartimenti etnici, negli anni, ha portato a realizzare, dove prima c’era un semplice profitto, un vero e proprio super-profitto, assoggettando interi popoli ad interessi sempre più violenti e autoritari, con lo strumento dell’imperialismo. E il super-profitto non può che scaturire naturalmente da un super-sfruttamento, quello dei lavoratori e delle lavoratrici (spesso pure schiave!) immigrati/e.

            

La Lega Nord, i partiti di tradizione neofascista, e tutte le correnti reazionarie e populiste dei partiti dell’arco costituzionale borghese presentano il lavoratore straniero come il nemico, come unica fonte di pericolo quotidiano e causa ultima della precarizzazione che ogni proletario vive pesantemente giorno per giorno sulla sua pelle.
Noi non accettiamo tutto ciò, combattiamo attivamente ogni atto di violenza commesso contro ogni singolo immigrato e ci impegniamo a promuovere insieme a tutte le sinistre politiche, sindacali e di movimento un fronte unico di resistenza contro la deriva ideologica del razzismo.

Poniamo le fondamenta per l’unità della classe lavoratrice, al di là di ogni colore della pelle o provenienza geografica. Perché solo una società egualitaria che elimini il lavoro salariato per mezzo di una lotta di classe politicamente ed ideologicamente antirazzista potrà schiacciare la xenofobia una volta per tutte!

sabato 15 novembre 2014

14 Novembre 2014: il PCL a Salerno a fianco di studenti e lavoratori


Matteo Renzi ha dichiarato guerra ai lavoratori. Il Capo del governo si presenta come difensore dei giovani e bandiera del “nuovo” contro il “vecchio”. Mente nel modo più spudorato. Non c'è nulla di più “vecchio” che voler distruggere l'articolo 18 sulla scia di Berlusconi. Non c'è aggressione più squallida ai giovani che sommare il loro libero licenziamento illegittimo con la liberalizzazione dei “contratti a termine” senza causale. Altro che “superamento del precariato”! E' precariato per tutti, a partire proprio dai giovani. E' la morte sociale della giovane generazione.
La Confindustria plaude entusiasta all’attacco frontale al mondo del lavoro. Renzi vuole presentarsi come “amico del popolo” solo per ottenere il suo consenso drogato. E vuole il suo consenso sia per soddisfare al meglio gli interessi dei capitalisti “contro il popolo”, sia per coltivare le proprie ambizioni di nuovo Bonaparte “nel nome del popolo”.


Questo progetto reazionario va fermato. Ogni spirito di resa va rimosso. Ogni ammiccamento furbesco verso Renzi va archiviato. Occorre una vera lotta di massa, che opponga la forza alla forza. L'occupazione delle fabbriche che licenziano non può restare un'allusione, o ridursi a minaccia virtuale per recuperare il dialogo con Renzi. Deve tradursi in un'azione reale e generale. Occorre il più vasto fronte di lotta di milioni di lavoratori e lavoratrici in aperta contrapposizione al fronte unico dei padroni e del governo.

·         L’ ''ARTICOLO 18 VA DIFESO ED ESTESO A TUTTI I LAVORATORI
·         VANNO CANCELLATE TUTTE LE LEGGI DI PRECARIZZAZIONE DEL LAVORO DEGLI ULTIMI 20 ANNI, A PARTIRE DAL DECRETO POLETTI
·         IL LAVORO CHE C'È VA DISTRIBUITO FRA TUTTI, CON UNA RIDUZIONE GENERALE DELL'ORARIO A PARITÀ DI PAGA
·         VA CANCELLATA L'INFAME LEGGE FORNERO SULLE PENSIONI
·         VA ISTITUITO UN SALARIO DIGNITOSO PER I DISOCCUPATI CHE CERCANO LAVORO E PER I GIOVANI IN CERCA DI PRIMA OCCUPAZIONE, COL TAGLIO DEI TRASFERIMENTI A INDUSTRIALI E BANCHIERI
·         VA VARATO UN GRANDE PIANO DI NUOVO LAVORO IN OPERE DI PUBBLICA UTILITÀ (A PARTIRE DAL DISSESTO IDROGEOLOGICO) FINANZIATO DALLA TASSAZIONE PRORESSIVA DELLE GRANDI RICCHEZZE

Una vera mobilitazione di massa su queste prime rivendicazioni potrebbe unificare lavoratori, precari, disoccupati. Potrebbe disarmare il populismo ipocrita di Renzi. Potrebbe smascherare il populismo reazionario di Grillo, che per prendere voti difende oggi a parole l'articolo 18, mentre chiede licenziamenti nelle fabbriche in crisi nel nome della “fine del lavoro” (e in cambio di 600 euro di cittadinanza).
Solo un'esplosione sociale può fare piazza pulita di tutti i ciarlatani, sbarrare la strada a Renzi, rovesciare i rapporti di forza, preparare l'unica vera soluzione alternativa: quella di un governo dei lavoratori, basato sulla loro organizzazione e la loro forza.
Il PCL, l'unica sinistra che non ha mai tradito i lavoratori, porta e porterà in ogni lotta la coscienza di questa verità. La costruzione e il radicamento del Partito Comunista dei Lavoratori è al servizio di questa prospettiva di rivoluzione



venerdì 7 novembre 2014

Alcune leggende della burocrazia: Appendice all'opera di Leon Trotsky "Storia della Rivoluzione Russa"




La concezione della rivoluzione d'ottobre sviluppata in questo libro è stata avanzata dall'autore più di una volta durante i primi anni del regime sovietico, per quanto, certamente, solo nelle sue linee generali. In modo da poter delineare più chiaramente il suo pensiero, egli ha qualche volta usato espressioni quantitative: l'abbattimento del vecchio regime, ha scritto, fu completato "per i tre-quarti se non per i nove-decimi" prima del 25 di ottobre, attraverso un metodo di "silenziosa" o "legale" insurrezione. Se non si dà a queste cifre più importanza di quella che i numeri potrebbero pretendere in tali materie, l'idea stessa rimane assolutamente incontestabile. Ma poiché è iniziata una rivalutazione di tali cifre, la nostra concezione è stata su tali basi aspramente criticata.

"Se il 9 di ottobre i nove-decimi della 'vittoriosa' insurrezione erano già un fatto compiuto", ha scritto Kamenev, "come dovremmo allora stimare le capacità intellettuali di coloro che sedevano nel Comitato Centrale dei bolscevichi, e che il 10 di ottobre discutevano in un acceso dibattito se fare o meno un'insurrezione, e, nel caso, quando? Cosa dovremmo dire delle persone che si riunirono il 16 di ottobre [...] ed ancora ed ancora stimavano le possibilità per un'insurrezione? [...] Oh sì, par proprio che fosse già un fatto compiuto il 9 di ottobre, in modo 'silenzioso' e 'legale' - così silenzioso invero che né il partito né il Comitato Centrale se ne erano accorti". Quest'argomento, superficialmente così efficace, è in realtà un impressionante ammasso d'errori.
Il 9 di ottobre l'insurrezione non poteva affatto essere un fatto già compiuto "per i nove-decimi", perché quel giorno il problema del trasferimento della guarnigione era stato appena sollevato nel Soviet, ed era impossibile sapere come le cose si sarebbero sviluppate in futuro. Fu per questa ragione che il giorno successivo, il 10, insistendo sull'importanza del trasferimento delle truppe, Trotsky non aveva ancora sufficiente terreno per chiedere che il conflitto tra la guarnigione ed il suo comando venisse posto come base dell'intero piano insurrezionale. Solo dopo le successive due settimane di cocciuto lavoro quotidiano il compito principale dell'insurrezione - quello di portare le truppe governative ad appoggiare il popolo - divenne un fatto compiuto "per i tre-quarti son per i nove-decimi". Non era così il 10, e neanche il 16 di ottobre, quando il Comitato Centrale discusse per la seconda volta il problema dell'insurrezione e quando Krylenko presentò quasi definitivamente la questione della guarnigione come elemento chiave. Ma anche se la rivoluzione fosse stata vittoriosa per i nove-decimi già il 9 di ottobre - come Kamenev presenta erroneamente il nostro pensiero - questo fatto avrebbe potuto trovar verifica reale non nelle supposizioni, ma solo con l'azione - cioè, facendo un'insurrezione. La "capacità intellettuale" dei membri del Comitato Centrale non sarebbe stata, neppure in quel caso puramente ipotetico, minimamente compromessa dalla loro partecipazione agli accesi dibattiti del 10 e del 16 ottobre. In ogni modo, pur supponendo che i membri del Comitato Centrale avessero agito pienamente sulla base di calcoli aprioristici secondo i quali la vittoria era già per i nove-decimi già acquisita, sarebbe comunque rimasto necessario realizzare l'ultimo decimo, e ciò avrebbe richiesto tanta attenzione quanto quella necessaria per realizzare tutti i dieci-decimi. Quante insurrezioni e battaglie "quasi" vinte ci presenta la storia - battaglie e insurrezioni che son state poi sconfitte solo perché non son state spinte in tempo debito sino alla completa sconfitta del nemico!. Ed infine - Kamenev è sufficientemente ricco d'ingegno da dimenticarsi anche questo - la sfera d'attività del Comitato Militare Rivoluzionario era limitata a Pietrogrado. Per quanto importante la capitale potesse essere, esisteva nondimeno anche il resto del paese. E da questo punto di vista il Comitato Centrale non aveva campo sufficiente per soppesare attentamente le possibilità dell'insurrezione, non solo il 10 o il 16, ma neppure il 26 - cioè, dopo la vittoria a Pietrogrado.
Kamenev, nell'argomentazione che stiamo discutendo, prende a difendere Lenin. Tutti gli epigoni si difendono mascherandosi dietro questo nome fittizio. Come avrebbe potuto Lenin, egli si chiede, lottare così appassionatamente per un'insurrezione, se questa era già un fatto compiuto per i nove-decimi? Ma lo stesso Lenin scrisse, all'inizio di ottobre: "è ora anche possibile prendere il potere senza un'insurrezione". In altre parole, Lenin ammetteva che una rivoluzione "silenziosa" vi fosse già stata già prima del 9 di ottobre, ed inoltre non per i nove, ma per i dieci-decimi. Egli comprendeva, però, che quest'ottimistica ipotesi poteva esser messa a verifica solo nell'azione. Per questa ragione disse, nella medesima lettera: "Se non possiamo prendere il potere senza insurrezione, allora dobbiamo fare un'insurrezione immediatamente". È questo il problema che venne discusso il 10, il 16 e in altre occasioni.
Le opere storiografiche sovietiche recenti hanno completamente cancellato dalla rivoluzione d'ottobre il capitolo, estremamente importante ed istruttivo, che tratta dei disaccordi tra Lenin ed il Comitato Centrale - disaccordi che riguardavano tanto questioni di principio, sulle quali Lenin aveva perfettamente ragione, quanto materie particolari, ma molto importanti, nelle quali ad aver ragione era il Comitato Centrale. Secondo la nuova dottrina né Lenin né il Comitato Centrale possono commettere un errore, di conseguenza non può esservi stato alcun conflitto tra essi. In quei casi in cui diviene impossibile negare l'esistenza di un conflitto, esso, in obbedienza della prescrizione generale, viene descritto come causato solo ed esclusivamente da Trotsky.
I fatti dicono diversamente. Lenin insisteva di iniziare l'insurrezione durante i giorni della Conferenza Democratica. Nessun membro del Comitato Centrale lo appoggiava. La settimana seguente Lenin propose a Smilga di organizzare un quartier generale insurrezionale in Finlandia, e di colpire da lì il governo con la marina. Ancora dieci giorni dopo insisteva perché il Congresso del Nord divenisse il punto di partenza dell'insurrezione. Nessuno al Congresso appoggiò tale proposta. Alla fine di settembre Lenin reputò il rinvio dell'insurrezione di tre settimane, fino al Congresso dei Soviet, come fatale. Nondimeno l'insurrezione, differita al dopo-Congresso, fu compiuta mentre il Congresso era in seduta. Lenin propose di iniziare la battaglia a Mosca, assumendo che lì questa sarebbe stata risolta senza combattimenti. Di fatto l'insurrezione di Mosca, nonostante la precedente vittoria a Pietrogrado, durò otto giorni e costò molte vittime.
Lenin non era un automa dalle decisioni infallibili. Egli era "solo" un uomo di genio, e nulla di umano era in lui alieno, inclusa la capacità di commettere errori. Lui stesso disse, sull'attitudine degli epigoni verso i grandi rivoluzionari: "Dopo la loro morte, vengon fatti tentativi per convertirli in immagini innocue, per santificarli, così da, così per dire, rendere omaggio verbale al loro nome e tradirli in modo più sicuro con i fatti". Gli epigoni odierni pretendono che Lenin venga riconosciuto infallibile, sì da estendere più facilmente questo dogma anche a se stessi. [Durante il terzo Congresso dell'Internazionale Comunista, per poter addolcire il suo attacco a certi "ultra-sinistri", Lenin fece riferimento ad alcuni errori "ultra-sinistri" da lui stesso commessi, specialmente quand'era un émigré. Tra questi ve ne era uno commesso durante la sua ultima "emigrazione" in Finlandia nel 1917, quand'egli difese un piano insurrezionale meno opportuno di quello poi attuato. Tale riferimento ai propri errori venne da lui fatto anche, se la memoria non ci inganna, anche in una lettera alla commissione del Congresso per gli affari tedeschi. Sfortunatamente gli archivi dell'Internazionale Comunista non sono a noi accessibili, e le dichiarazioni di Lenin in tal proposito non son state ovviamente pubblicate].
Ciò che caratterizzava Lenin come uomo di stato era una combinazione di coraggiose vedute ed estimazioni meticolose di piccoli fatti ed indizi. Il suo isolamento non gl'impediva di intuire, con incomparabile precisione, gli stadi fondamentali e le linee del movimento, ma lo privava della possibilità di far valutazioni tempestive di fattori episodici e cambiamenti temporanei. La situazione politica era talmente favorevole per un'insurrezione da concedere diverse possibilità di vittoria. Se Lenin fosse stato a Pietrogrado ed avesse portato avanti il suo piano senza attendere il Congresso dei Soviet, egli gli avrebbe indubbiamente dato una posa politica che avrebbe sicuramente ridotto al minimo i suoi fattori di svantaggio. Ma è anche egualmente probabile che in quel caso lui stesso ci avrebbe poi ripensato, per giungere ad appoggiare il piano che poi fu effettivamente adottato.
Abbiamo già dato, in un capitolo separato, la nostra valutazione del ruolo di Lenin nella strategia generale della rivoluzione. Concentrando la nostra attenzione alle proposte tattiche leniniste, possiamo aggiungere che, senza le sue pressioni, i suoi stimoli, i suoi suggerimenti ed i suoi vari piani, sarebbe stato infinitamente più difficile percorrere la strada dell'insurrezione. Se Lenin fosse stato allo Smolny durante le settimane più critiche, la leadership generale del partito - e non solo quella di Pietrogrado, ma anche quella di Mosca - sarebbe stata di un livello considerabilmente maggiore. Ma il Lenin "émigré" non può prendere il posto di Lenin allo Smolny.
Lenin stesso sentiva con maggior perspicacia di tutti l'inadeguatezza dei suoi orientamenti tattici. Il 24 settembre scrisse su Rabochy Put: "La crescita della nuova rivoluzione sta ovviamente progredendo - sappiamo sfortunatamente poco dell'ampiezza e della rapidità di tale crescita". Queste parole sono tanto un rimprovero ai leader del partito, quanto una lamentela per la propria mancanza di informazioni. Ricordando nelle sue lettere le regole più importanti dell'insurrezione, Lenin non s'è dimenticato di aggiungere: "Queste son solo approssimative e servono unicamente a scopo illustrativo". L'8 di ottobre egli scrisse al Congresso Regionale dei Soviet del Nord: "Cercherò di presentarmi con alcuni consigli nel caso in cui la probabile insurrezione degli operai e dei soldati di Pietroburgo [...] giunga presto, ma essa non è ancora giunta". Lenin iniziò la sua polemica contro Zinov'ev e Kamenev con queste parole: "Un politico messo, per volontà del destino, un po' in disparte dalla linea principale della storia, corre costantemente il rischio di arrivare in ritardo o d'essere disinformato, specialmente quando la pubblicazione dei suoi scritti viene ritardata". Ecco ancora un reclamo contro il suo isolamento, insieme ad un rimprovero agli editori che ritardavano la pubblicazione di quegli articoli che giudicavano troppo incisivi, o che ne tagliavano i passaggi più spinosi. Una settimana prima dell'insurrezione Lenin scrisse in una lettera cospirativa ai membri del partito: "Per ciò che concerne il problema di iniziar adesso l'insurrezione, verso il 20 di ottobre, io non posso giudicare, da lontano, quante cose son state rovinate dall'atteggiamento crumiro (di Zinov'ev e Kamenev) sulla stampa non di partito". Le parole "da lontano" sono sottolineate dallo stesso Lenin.
Ma come viene spiegato dalla scuola degli epigoni il disaccordo tra le proposte tattiche di Lenin ed il corso reale degli eventi nell'insurrezione di Pietrogrado? Questa dà al conflitto un carattere anonimo ed informe; oppure ci passa direttamente sopra, dichiarandolo non degno di attenzione; oppure, ancora, cerca di confutare fatti incontrovertibili; oppure mette il nome Trotsky laddove Lenin sta parlando del Comitato Centrale nel suo intero o degli oppositori dell'insurrezione al suo interno; oppure, infine, combina tutti questi metodi, senza neppur considerare se essi siano o meno coerenti tra loro.
"La direzione dell'insurrezione d'ottobre", scrive Stalin, "dev'essere considerata un modello di strategia [bolscevica]. Trasgredire a questo requisito [che allo stato attuale sarebbe la cosa migliore da fare] porta a pericolosi errori, definibili come 'perdita del ritmo', che fan sì che partito inciampi dietro gli eventi oppure corra troppo avanti, correndo così il rischio di fallire. Il tentativo di un gruppo di compagni d'iniziare l'insurrezione con l'arresto della Conferenza Democratica nell'agosto 1917 dev'essere considerato come un esempio di questa 'perdita di ritmo', un esempio di come non scegliere il momento dell'insurrezione". La definizione "un gruppo di compagni" fatta in queste righe significa Lenin. Nessun fuorché Lenin propose d'iniziare l'insurrezione con l'arresto della Conferenza Democratica, e nessuno appoggiò tale proposta. Stalin raccomanda il piano tattico di Lenin come "un esempio di come non scegliere il momento dell'insurrezione". Ma la forma anonima della sua considerazione gli permette allo stesso tempo di negare apertamente che ci fosse un qualunque disaccordo tra Lenin ed il Comitato Centrale.
Yaroslavsky ha una via ancor più semplice per uscire dalle difficoltà. "Non è certamente questione di particolari", scrive, "non è questione del se l'insurrezione dovesse cominciare a Mosca piuttosto che a Pietrogrado". Il fatto è che l'intero corso degli eventi ha dimostrato "la correttezza della linea di Lenin, la correttezza della linea del nostro partito". Questo geniale storico semplifica straordinariamente il suo compito. Che l'Ottobre abbia verificato la strategia di Lenin, e dimostrato in particolare quanto importante sia stata la sua vittoria d'aprile contro lo strato dominante dei "vecchi bolscevichi", è cosa indubitabile. Ma se in generale non si pone la questione del dove, quando e come cominciare, allora, certo, nulla rimane dell'episodico disaccordo con Lenin - o di quella questione tattica in generale.
Nel libro di John Reed si narra del fatto che il 21 di ottobre i bolscevichi tennero una "seconda storica conferenza" nella quale, come viene riferito a Reed, Lenin disse: "Il 24 di ottobre è troppo presto per agire. Dobbiamo avere solide basi che comprendano tutta la Russia per l'insurrezione, ed il 24 non tutti i delegati saranno giunti al Congresso. D'altra parte, il 26 sarà troppo tardi per agire [...] Dobbiamo agre il 25, il giorno d'apertura del Congresso". Reed era un osservatore estremamente perspicace, capace di trasmettere nelle pagine del suo libro i sentimenti e le passioni dei giorni decisivi della rivoluzione. È per questa ragione che Lenin desiderava che l'incomparabile libro di Reed fosse distribuito in milioni di copie in tutti i paesi del mondo. Ma i lavori compiuti nel pieno degli eventi, con note prese sui corridoi, per le strade o affianco al fuoco d'un accampamento, con conversazioni e frasi frammentarie colte nell'aria, con, inoltre, il continuo bisogno d'un traduttore - tutte queste cose rendono gli errori inevitabili. Questa storia della seduta del 21 ottobre è una dei più ovvi errori del libro di Reed. L'argomento della necessità di "solide basi che comprendano tutta la Russia" per l'insurrezione non può assolutamente appartenere a Lenin, poiché Lenin più d'una volta descrisse la ricerca di tali basi come nulla più di "completa idiozia o tradimento". Lenin non può aver detto che il 24 era troppo presto, in quanto già dalla fine di settembre egli aveva considerato inammissibile il rinvio dell'insurrezione anche di un solo superfluo giorno. Può giunger tardi, disse, ma "è ora impossibile ch'essa sia prematura". In ogni caso, anche a prescindere da queste considerazioni politiche - già decisive in se stesse - la storia del Reed è confutata già dal semplice fatto che il 21 di ottobre non vi fu alcuna "seconda storica conferenza". Tale conferenza non avrebbe potuto non lasciar tracce nei documenti e nei ricordi degli altri partecipanti. Ci furon due sole conferenze con la partecipazione di Lenin: il 10 ed il 16. Reed non poteva saperlo. Ma i documenti sinora pubblicati non lasciano posto per una "storica seduta" del 21 ottobre. Gli storici epigoni non hanno però esitato ad includere questa, chiaramente erronea, testimonianza di Reed in tutte le pubblicazioni ufficiali. In tal modo hanno creato una fittizia precisione da calendario tra le direttive di Lenin ed il corso effettivo degli eventi. Di certo, nel far ciò, gli storici ufficiali hanno messo Lenin nella posizione di contraddir incomprensibilmente e spietatamente se stesso. Ma in essenza, bisogna capirlo, essi non stanno qui occupandosi di Lenin. Gli epigoni hanno semplicemente trasformato Lenin nel loro pseudonimo storico, e lo stanno usando senza tante cerimonie per stabilire la loro propria infallibilità ex post facto.
Ma gli storici ufficiali vanno anche oltre in questo loro lavoro di spingere i fatti passati entro la linea di marcia richiesta. Così Yaroslavsky scrive, nella sua storia del partito: "Alla sessione del Comitato Centrale del 24 di ottobre, l'ultima seduta prima dell'insurrezione, Lenin era presente". I verbali ufficiali pubblicati, contenenti una lista completa dei presenti, attestano che Lenin era assente. "Lenin e Kamenev furono autorizzati a negoziare con i socialrivoluzionari di sinistra", scrive Yaroslavsky. I verbali dicono che tale compito fu assegnato a Kamenev e Berezin. Ma dovrebbe anche esser ovvio, anche senza verbali, che il Comitato Centrale non avrebbe assegnato a Lenin tale secondario compito "diplomatico". Quella decisiva seduta avvenne al mattino, Lenin non arrivò allo Smolny fino a notte. Un membro del comitato di Pietrogrado, Sveshnikov, riferisce di come Lenin "andò da qualche parte verso sera [del 24] lasciando un biglietto nella sua stanza nel quale affermava di essere andato in tal luogo e a tal ora. Quando venimmo a sapere di tale biglietto ci preoccupammo molto per la vita Ilych". Solo "a tarda serata" si seppe nella zona che Lenin era andato al Comitato Militare Rivoluzionario.

La cosa più sorprendente di tutte, però, è il fatto che Yaroslavsky ignora un documento umano e politico di prima importanza: una lettera ai leader distrettuali scritta da Lenin nelle ore in cui l'insurrezione era appena iniziata: "Compagni! Scrivo queste righe nella sera del 24 [...] Voglio convincere con tutta la mia energia i compagni che tutto è ora appeso ad un filo, i problemi da affrontare in questo momento non possono essere risolti da conferenze, né da congressi (neanche congressi dei soviet), ma unicamente dal popolo, dalle masse, dalla battaglia delle masse armate. È necessario, a qualsiasi costo, arrestare il governo proprio questa sera, proprio questa notte, e disarmare (e se necessario sconfiggere) i junker, ecc.". Lenin temeva così tanto l'indecisione del Comitato Centrale, che stava cercando proprio all'ultimo momento di organizzare una pressione dal basso su di esso. "È necessario", scrive, "che tutti i distretti, tutti i reggimenti e tutte le forze, siano mobilitate all'istante e spediscano immediatamente delegazioni al Comitato Militare Rivoluzionario e al Comitato Centrale dei bolscevichi, con l'insistente richiesta di non lasciare il potere nelle mani di Kerensky & Co. fino al 25, in nessun caso - ma sistemare le cose oggi senza fallire, stasera o stanotte". Mentre Lenin stava scrivendo queste righe, i reggimenti ed i distretti che stava chiamando per far pressioni sul Comitato Militare Rivoluzionario eran già stati mobilitati dal Comitato Militare Rivoluzionario stesso per prendere il potere nella città ed abbattere il governo. Da questa lettera - ogni linea della quale vibra di ansietà e passione - è quantomeno evidente che Lenin non poteva aver proposto il 21 di differire l'insurrezione sino al 25, né poteva esser presente alla seduta del 24 mattina nella quale si decise d'iniziar l'offensiva immediatamente.
C'è, nondimeno, in questa lettera un elemento sconcertante. Come è potuto accadere che Lenin, nascosto nel distretto di Vyborg, non seppe fino a sera di una decisione di tale eccezionale importanza? Dalla descrizione di Sveshnikov - come anche da altre fonti - risulta evidente che le comunicazioni con Lenin eran mantenute in quei giorni attraverso Stalin. Si potrebbe solo presumere che, non essendo presente alla seduta di quella mattina al Comitato Centrale, neanche Stalin venne a sapere di quella decisione prima di sera.
La causa immediata del timore di Lenin potrebbe esser ritrovata nelle voci che in quel giorno circolavano con insistenza dallo Smolny, voci secondo cui non sarebbero stati compiuti passi decisivi sino ad una decisione in proposito del Congresso dei Soviet. Quella sera, ad una seduta d'emergenza del Soviet di Pietrogrado, Trotsky disse, nel suo rapporto sulle attività del Comitato Militare Rivoluzionario: "Un conflitto armato oggi o domani non è nei nostri piani - all'inizio del Congresso dei Soviet di tutta la Russia. Pensiamo che il Congresso porterà avanti il nostro slogan con maggior potere ed autorità. Ma se il governo vuole usare quel briciolo di vita che ancora gli resta - 24, 48 o 72 ore - per prender l'offensiva contro di noi, risponderemo con una controffensiva - colpo su colpo, ferro contro acciaio". Questo era il leitmotiv di quell'intera giornata. Questi annunci difensivi avevano lo scopo di cullare fino all'ultimo momento la non troppo sveglia vigilanza del nemico. Fu probabilmente tale manovra a far sì che Dan assicurasse Kerensky che nella notte del 25 i bolscevichi non avevano alcuna intenzione di fare un'immediata insurrezione. Ma, d'altra parte, anche Lenin, se una di queste dichiarazioni sedative dello Smolny lo raggiunsero, potrebbe, nel suo stato di tensione e sfiducia, aver scambiato un trucco militare per moneta sonante.
Gli espedienti sono un elemento necessario dell'arte della guerra. È un cattivo espediente, però, quello che può incidentalmente ingannare il proprio partito. Fosse stata questione di chiamar completamente in strada le masse, queste parole riguardo le prossime "72 ore" avrebbero potuto essere un atto fatale. Ma il 24 la rivolta non aveva già più bisogno di alcuna chiamata rivoluzionaria generale. I distaccamenti armati designati ad occupare i punti nevralgici della capitale erano pronti ed attendevano ordini, erano in contatto telefonico col più vicino quartier generale rivoluzionario per ricevere il segnale d'attacco. In tali circostanze uno stratagemma a doppio taglio dei quartier generali rivoluzionari era in pieno gioco.
Ogniqualvolta gli investigatori ufficiali si imbattevano in uno sgradevole documento, essi cambiavano il loro indirizzo di condotta. Così Yakovlev scrive: "I bolscevichi non si arrenderanno ad 'illusioni costituzionali', ma rifiuteranno le proposte di Trotsky di posticipare l'insurrezione sino al Secondo Congresso dei Soviet". Di quale proposta di Trotsky si stia parlando, di dove e quando essa fu espressa, di quali bolscevichi la rifiutarono - di tutto questo l'autore non ha nulla da dire, e non è un caso. Potremmo cercare invano tra i verbali, o tra le memorie, per qualsiasi indizio di una proposta di Trotsky di "posticipare l'insurrezione sino al Secondo Congresso dei Soviet". L'origine di quest'affermazione di Yakovlev è un equivoco, reso un po' convenzionale tempo addietro, dissipato da nessun altro che Lenin stesso.
Come è evidente da memoriali pubblicati tempo fa, Trotsky aveva sin dagli inizi di settembre richiamato più d'una volta all'attenzione degli oppositori dell'insurrezione sul fatto che l'indicare la data per il Congresso dei Soviet equivaleva, per i bolscevichi, ad indicare la data per l'insurrezione. Questo non significava, ovviamente, che la rivolta non poteva avvenire senza previa decisione del Congresso dei Soviet - non si può neanche parlare di tale formalismo infantile. Era questione di data ultima, dell'impossibilità di rinviare questa a tempo indefinito dopo il Congresso. Attraverso chi, ed in quale forma, tali dispute nel Comitato Centrale raggiunsero Lenin, non risulta chiaramente da questi documenti. Un colloquio diretto con Trotsky, che era troppo in vista per il nemico, sarebbe stato un rischio troppo grande per Lenin. In assenza di tale colloquio, e visto il suo poco fiducioso atteggiamento del tempo, egli avrebbe potuto temere che Trotsky avrebbe posto troppa enfasi sul Congresso anziché sull'insurrezione, o che in ogni caso non avrebbe posto la necessaria resistenza alle "illusioni costituzionali" di Zinov'ev e Kamenev. Lenin potrebbe esser stato anche ansioso riguardo i nuovi membri del Comitato Centrale da lui poco conosciuti, gli ex Mezhrayontsi (o fusionisti), Joffé ed Uritzky. C'è chiara evidenza di questo fatto in un discorso da lui tenuto ad una seduta del Comitato di Pietrogrado del primo di novembre, dopo l'ottenuta vittoria. "La questione venne sollevata alla seduta [del 10 ottobre] che discusse dell'offensiva. Io temevo atteggiamenti opportunisti da parte dei fusionisti-internazionalisti, ma questi timori son stati dissipati; nel nostro partito, comunque, [alcuni vecchi] membri [del Comitato Centrale] non erano d'accordo. Questo fatto mi rattristò profondamente". Secondo le sue stesse parole, Lenin si convinse quel giorno che non solo Trotsky, ma anche Joffé e Uritzky, che erano sotto la sua influenza, erano decisamente in favore dell'insurrezione. Il problema delle date venne sollevato per la prima volta in quella seduta. Quando allora, e da chi, venne rigettata la "proposta di Trotsky" di non cominciare l'insurrezione senza una preliminare decisione in proposito da parte del Congresso dei Soviet? Per poter allargare ancor di più la confusione esistente, gli investigatori ufficiali, con i loro riferimenti alla falsa decisione del 21, attribuirono, come abbiamo visto, la medesima proposta anche a Lenin.
A questo punto Stalin entra con impeto nella discussione con una nuova versione che confuta quella di Yakavlev, portandola però assai oltre. Sembra, in accordo a quanto dice Stalin, che il rinvio dell'insurrezione al giorno del Congresso - cioè, sino al 25 - non avesse incontrato intrinseche obiezioni da parte di Lenin, ma che il piano venne rovinato dalla pubblicazione anticipata della data dell'insurrezione. Lasciamo però la parola allo stesso Stalin: "L'errore del Soviet di Pietrogrado di dichiarare apertamente e pubblicare all'estero la data dell'insurrezione [25 ottobre] non poteva esser corretto se non per mezzo di un'insurrezione che avvenisse prima di questa data ufficiale". Quest'affermazione è disarmante nella sua inconsistenza. Come se in quelle dispute con Lenin il problema fosse stato quello di scegliere tra il 24 ed il 25 di ottobre! È un fatto che Lenin scrisse quasi un mese prima dell'insurrezione: "Attendere il Congresso dei Soviet è pura idiozia, in quanto significa lasciar passere preziose settimane. Ma settimane e persino giorni, al momento attuale, sono decisivi". Dove, e quando, e da che parte, il Soviet avrebbe pubblicato all'estero la data dell'insurrezione? È persino difficile trovare un plausibile motivo per compiere tale atto insensato. In realtà non fu l'insurrezione, ma l'apertura del Congresso dei Soviet ad essere pubblicamente annunciato in anticipo per il giorno 25, e ciò non venne fatto dal Soviet di Pietrogrado, ma dal Comitato Esecutivo Centrale alleanzista. Da questo fatto, e non da pretese indiscrezioni del Soviet, il nemico trasse certe inferenze: i bolscevichi, se non voglion uscir di scena, devono tentare di conquistare il potere al momento del Congresso. "Scaturiva dalla logica delle cose", scrivemmo successivamente, "che avevamo fissato l'insurrezione per il 25 di ottobre. Ciò venne compreso anche dalla stampa borghese". Stalin ha convertito il suo confuso ricordo di questa "logica delle cose" in una "indiscreta" pubblicazione all'estero del giorno fissato per l'insurrezione. È questo il modo con cui la storia viene scritta.

Sempre Stalin, nel secondo avversario della rivoluzione, riferendosi nel senso qui spiegato al fatto che "l'insurrezione d'ottobre fu, per così dire, fissata anticipatamente per una data definita, per il 25 ottobre, e fu compiuta esattamente in quella data", aggiunse: cercheremmo invano nella storia per un altro esempio di insurrezione decisa in anticipo dal corso degli eventi per una specifica data. Quest'affermazione era errata: l'insurrezione del 10 agosto 1792 venne anch'essa fissata approssimativamente una settimana prima per un giorno definito, ed anche qui la cosa trapelò non da indiscrezioni ma direttamente dalla logica degli eventi.
Il 3 agosto l'Assemblea Legislativa stabilì che l'istanza della sezione parigina sull'abbattimento del re sarebbe stata ripresa il 9. "Stabilendo così il giorno del dibattito", scrisse Jaurés, che aveva osservato molte cose ch'erano sfuggite ai vecchi storici, "essa ha anche stabilito il giorno dell'insurrezione". Danton, il leader della sezione, prese una posizione difensiva: "se scoppia una rivoluzione", dichiarò con insistenza, "essa sarà una risposta al tradimento del governo". Questo attendere le considerazioni dell'Assemblea Legislativa non era affatto "illusione costituzionale". Era semplicemente un modo per preparare l'insurrezione, e quindi una coperta legale per essa. Le sezioni, come è ben risaputo, si alzarono a supporto della propria posizione al segnale convenuto con armi in mano.
Le somiglianze tra queste due rivoluzioni, separate da un intervallo di 125 anni, non sono per niente accidentali. Entrambe le insurrezioni si verificarono non all'inizio della rivoluzione, ma ad uno stadio successivo, cosa che le ha rese assai più coscienti e ponderate. In entrambi i casi le crisi rivoluzionarie avevano raggiunto un alto livello di maturità; le masse erano ben consce della loro irrevocabilità e pronte alla rivolta. La richiesta di unità d'azione le forzò a concentrare la loro attenzione verso una ben definita data "legale" come centro dei prossimi eventi. I leader si subordinarono a questa logica del movimento di massa. Quand'erano già al comando della situazione politica, con la vittoria già quasi in pugno, essi adottarono quella che parve essere una posizione difensiva: provocando ed indebolendo così il nemico, essi stesero anticipatamente innanzi ad esso la responsabilità del vicino conflitto. È in questo modo che l'insurrezione prese piede in una "data indicata in anticipo".
Le asserzioni di Stalin, con la loro tanto lampante inappropriatezza - un certo numero di esse son state citate nei capitoli precedenti - mostrano quanto poco egli abbia riflettuto sugli eventi del 1917 e sulle loro connessioni interne, e quali tracce sommarie essi abbiano lasciato nella sua memoria. Come può esser spiegato questo fatto? È ben risaputo che le persone fanno la storia senza conoscerne le leggi, giusto come digeriscono il cibo senza saper nulla di fisiologia o di digestione. Ma sembrerebbe che ciò non dovrebbe essere applicato ai leader politici - soprattutto ai leader di un partito che agisce sulla base di un programma scientificamente fondato. È però un fatto che molti rivoluzionari, che pur han preso parte ad una rivoluzione in una posizione di spicco, rivelano assai presto un'incapacità a comprendere il significato intrinseco delle cose che sono accadute con la loro diretta partecipazione. La letteratura straordinariamente abbondante degli epigoni dà l'impressione che questi eventi colossali rovescino le menti umane e le schiaccino così come un rullo a vapore schiaccerebbe braccia e gambe. Fino ad un certo punto ciò è vero; un'eccessiva tensione fisica consuma velocemente le persone. Un'altra circostanza, però, è molto più importante. Una rivoluzione vittoriosa cambia radicalmente la situazione dei rivoluzionari di ieri. Essa placa la loro curiosità scientifica, li rappacifica con le frasi fatte, li spinge a considerare gli eventi passati alla luce dei nuovi interessi. Così un intreccio di leggende burocratiche ricopre in modo sempre più fitto la reale configurazione degli eventi.
Nel 1924 l'autore di questo libro, nel suo lavoro intitolato Lezioni dell'Ottobre, cercò di spiegare perché Lenin, nel guidare il partito verso l'insurrezione, fu costretto a lottare in modo così violento contro l'ala destra rappresentata da Zinov'ev e Kamenev. Stalin ha obbiettato nel modo seguente a questa spiegazione: "C'erano all'epoca disaccordi all'interno del partito? Sì, ce n'erano. Ma essi erano di carattere esclusivamente pratico, e non del tipo che vuole farci credere Trotsky, che sta tentando di scoprire un'ala 'destra' ed una 'sinistra' all'interno del partito [...] Trotsky sostiene che, nelle persone di Kamenev e Zinov'ev, avevamo in Ottobre all'interno del partito un'ala destra [...] Com'è successo che il dissenso con Kamenev e Zinov'ev durò solo pochi giorni? [...] Non ci fu alcuna spaccatura ed il dissenso durò solo pochi giorni perché, e solo perché, Kamenev e Zinov'ev erano bolscevichi-leninisti". Non aveva Stalin, sette anni prima (cinque anni prima dell'insurrezione), accusato allo stesso modo l'eccessiva durezza di Lenin, ed asserito che Zinov'ev e Kamenev stavano sullo stesso comune piano del "bolscevismo"? In tutti i zigzag di Stalin c'è quindi un certo filo di coerenza, generato non da una chiara filosofia, ma dallo stampo generale del suo carattere. Sette anni dopo la rivoluzione, così come nel bel mezzo dell'insurrezione, egli concepisce la profondità dei dissensi all'interno del partito nella stessa vaga maniera.
La questione fondamentale per un leader politico rivoluzionario è quella riguardante lo stato. Nelle loro lettere dell'11 ottobre contro l'insurrezione, Zinov'ev e Kamenev scrissero: "Con una tattica corretta noi potremmo vincere un terzo, ed anche più di un terzo, dei seggi dell'Assemblea Costituente [...] L'Assemblea Costituente più il Soviet, questo è il tipo misto d'istituzione statale verso il quale ci stiamo dirigendo". Con "tattica corretta" si intendeva una rinuncia alla conquista del potere da parte del proletariato. Il "tipo misto" di stato era una combinazione tra l'Assemblea Costituente, della quale i partiti borghesi avrebbero costituito i due-terzi, con i Soviet, dove il partito del proletariato era al comando. Questo tipo di stato combinato divenne conseguentemente la base dell'idea di Hilferding di includere i Soviet nella costituzione di Weimar. Il Generale Lisingen, comandante a Brandeburgo, nell'impedire, il 7 novembre 1918, la formazione di soviet con la giustificazione che "istituzioni di questo tipo sono in conflitto con l'esistente ordine statale", ha quanto meno mostrato un'assai maggior intuizione degli austro-marxisti e del Partito Indipendente di Germania.
Lenin avvertì in aprile che l'Assemblea Costituente sarebbe caduta ad un ruolo subordinato. In ogni caso, né lui né il partito nel suo intero rinunciarono mai formalmente durante il 1917 all'idea della rappresentanza democratica, essendo impossibile dichiarare con fiducia in anticipo fino a che punto la rivoluzione sarebbe giunta. Si assunse che, dopo aver preso il potere, i soviet avrebbero piuttosto presto conquistato l'esercito ed i contadini, così che l'Assemblea Costituente - specialmente dopo l'estensione del diritto di voto (Lenin propose in particolare di abbassare l'età per votare a 18 anni) - avrebbe dato la maggioranza ai bolscevichi, offrendo giustificazione formale al regime dei soviet. In tal senso Lenin parlava ogni tanto di un "tipo misto" di stato - cioè, di un unione tra l'Assemblea Costituente e la dittatura sovietica. I fatti si svilupparono nella realtà lungo linee differenti. Malgrado l'insistenza di Lenin, il Comitato Centrale non avrebbe potuto evitare, dopo la conquista del potere, di rinviare per alcune settimane la convocazione dell'Assemblea Costituente - per quanto senza di essa era impossibile estendere il diritto di voto o, cosa più importante, dare ai contadini la possibilità di ridefinire le loro relazioni con i socialrivoluzionari e con i bolscevichi. L'Assemblea Costituente entrò in conflitto col Soviet e fu disciolta. I campi ostili rappresentati in essa entrarono in una guerra civile che durò anni. Nel sistema della dittatura sovietica non si trovo neppure un posto secondario per la rappresentanza democratica. La questione del "tipo misto" fu, di fatto, ritirata. Teoricamente, però, essa mantenne tutta la sua importanza, come in seguitò venne provato dall'esperimento del Partito Indipendente di Germania.
Quando, nel 1924, Stalin, sottomesso alle esigenze di una battaglia interna al partito, tentò per la prima volta di fare una valutazione indipendente del passato, venne in difesa dello "stato combinato" di Zinov'ev, sostenendo la sua tesi facendo riferimento a Lenin. "Trotsky, quando snobba la teoria di una combinazione tra l'Assemblea Costituente ed i soviet definendola come 'hilferdingismo', non comprende le peculiarità della tattica bolscevica", scrisse Stalin nella sua caratteristica maniera. "Zinov'ev, che Trotsky è pronto a trasformare in un 'hilferdingista', condivide completamente il punto di vista di Lenin". Ciò vuol dire che, sette anni dopo le battaglie politiche e teoriche del 1917, Stalin ha completamente mancato di comprendere che con Zinov'ev, come con Hilferding, era una questione di metter d'accordo e riconciliare il potere di due classi differenti, la borghesia nell'Assemblea Costituente ed il proletariato nei soviet, laddove per Lenin il problema era quello di combinare due istituzioni esprimenti il potere di una sola ed unica classe: il proletariato. L'idea di Zinov'ev, come Lenin spiegò all'epoca, si opponeva alle stesse basi degli insegnamenti marxisti sullo stato. "Con il potere nelle mani dei soviet", scrisse Lenin contro Zinov'ev e Kamenev il 17 di ottobre, "il 'modello misto' sarebbe accettato da tutti. Ma trascinare sotto il titolo di 'modello misto' un rifiuto di trasferire il potere ai soviet [...] è possibile trovare un'espressione verbale per questo?". Vediamo, allora, che per valutare quest'idea di Zinov'ev, che Stalin dichiara essere "la peculiarità della tattica bolscevica" presumibilmente non compresa da Trotsky, Lenin trova persino difficile trovare un'espressione verbale, per quanto egli non fosse particolarmente schizzinoso in queste materie. Dopo poco più di un anno Lenin scrisse, applicando il medesimo ragionamento alla Germania: "Il tentativo di combinare la dittatura della borghesia con la dittatura del proletariato, equivale ad una completa rinuncia tanto del marxismo quanto del socialismo in generale". Avrebbe potuto in effetti egli scriver diversamente?
Il "modello misto" di Zinov'ev era essenzialmente un tentativo di rendere eterno il potere duale - ovvero una ripresa del completamente esausto esperimento menscevico. E se Stalin nel 1924 stava ancora sullo stesso piano di Zinov'ev su tale questione, ciò vuol dire che egli, malgrado la sua aderenza alle tesi di Lenin, si è nondimeno fermato a metà strada di quella teoria del potere duale da lui sviluppato il 29 marzo 1917: "I ruoli son stati divisi. Il Soviet ha di fatto preso l'iniziativa della trasformazione rivoluzionaria [...] Il Governo Provvisorio ha di fatto assunto il ruolo di fortificatore delle conquiste del popolo rivoluzionario". Le mutue relazioni tra borghesia e proletariato son qui definite come semplice divisione di compiti.
Durante l'ultima settimana precedente l'insurrezione, Stalin stava ovviamente manovrando tra Lenin, Trotsky e Sverdlov, da un lato, e Kamenev e Zinov'ev dall'altro. Quella dichiarazione editoriale a difesa degli opponenti dell'insurrezione contro i colpi di Lenin, non poteva - specialmente dalla penna di Stalin - essere accidentale. Nelle questioni di manovre intra-partito egli era un maestro. Così come in aprile, dopo l'arrivo di Lenin, Stalin spinse cautamente avanti Kamenev, mentre lui attendeva silenziosamente in disparte prima di unirsi alla battaglia, così pure nel bel mezzo dell'insurrezione egli si stava ovviamente preparando, in caso di sconfitta, a ritrattare a favore di Kamenev e Zinov'ev. Stalin percorreva quella strada fino al punto oltre il cui limite ci sarebbe stata una rottura con la maggioranza del Comitato Centrale. Tale prospettiva lo spaventava. Alla seduta del 21 egli riparò il suo ponte mezzo rotto con l'ala sinistra del Comitato Centrale chiedendo che Lenin preparasse le tesi sulle fondamentali questioni del Congresso dei Soviet e che Trotsky facesse il rapporto politico. Entrambe le mozioni vennero adottate all'unanimità. Essendosi così assicurato la sinistra, egli si ritirò all'ultimo momento nell'ombra, dove sarebbe stato in attesa. Tutti i nuovi storici, iniziando da Yaroslavsky, evitano attentamente di citare il fatto che Stalin non era presente alla seduta del Comitato Centrale allo Smolny il 24, e che non assunse alcuna funzione nell'organizzazione dell'insurrezione! Nondimeno questo fatto, incontestabilmente dimostrato dai documenti, prova meglio d'ogni altra cosa quale sia la personalità politica di Stalin e quali i suoi metodi.
Sin dal 1924 sono stati compiuti innumerevoli sforzi per riempire lo spazio vacante nella biografia politica di Stalin nel periodo della rivoluzione d'ottobre. Ciò è stato compiuto per mezzo di due pseudonimi: il "Comitato Centrale" ed il "centro funzionale". non potremmo comprendere la struttura della leadership dell'ottobre, né la struttura delle ultime leggende degli epigoni, se non ci avvicinassimo un po' di più allo staff del Comitato Centrale dell'epoca.
Lenin, il leader riconosciuto, autorevole per tutti ma, come mostrano i fatti, ben lontano dall'essere un "dittatore" nel partito, per un periodo di quattro mesi non prese parte diretta nel lavoro del Comitato Centrale, e su un certo numero di questioni tattiche era in forte contrasto con esso. I leader più importanti del vecchio nucleo bolscevico, molto distanti da Lenin ma anche da coloro che vennero dopo, erano Zinov'ev e Kamenev. Zinov'ev era nascosto tanto quanto Lenin. Prima dell'Ottobre Zinov'ev e Kamenev erano venuti in strenua opposizione con Lenin e la maggioranza del Comitato Centrale. Per questo motivo vennero rimossi dal loro rango. Dei vecchi bolscevichi, Sverdlov era arrivato velocemente alle alte sfere, ma egli era, allora, ancora un nuovo arrivato nel Comitato Centrale. Il suo talento organizzativo si sviluppò solo più tardi, negli anni della costruzione dello stato sovietico. Dzershinsky, che si era di recente unito al partito, si distingueva per il suo temperamento rivoluzionario, ma non aveva pretese di autorità politica indipendente. Bucharin, Rykov, e Nogin vivevano a Mosca. Bucharin era considerato un ben dotato ma inaffidabile teorico. Rykov e Nogin erano oppositori dell'insurrezione. Lomov, Bubnov e Miliutin ottenevano difficilmente la fiducia di qualcuno se c'eran da prendere grandi decisioni; per di più Lomov stava lavorando a Mosca e Miliutin era in viaggio. Joffé e Uritzky erano stati strettamente associati quand'erano emigré; poi lo furono con Trotsky, e stavano lavorando in accordo con lui. Il giovane Smilga stava lavorando in Finlandia. Questa composizione e situazione interna del Comitato Centrale spiega sufficientemente perché, fino al ritorno di Lenin alla direzione del partito, il quartier generale non giocava e non poteva giocare neppure al minimo grado il ruolo che avrebbe in seguito assunto. I verbali mostrano che i problemi più importanti - quelli riguardanti il Congresso dei Soviet, la guarnigione, il Comitato Militare Rivoluzionario - non vennero discussi anticipatamente dal Comitato Centrale e non lo spinsero all'iniziativa, ma scaturirono allo Smolny direttamente dall'attività pratica dei soviet, e furon risolti nei circoli dei loro leader - la maggior parte delle volte con la partecipazione di Sverdlov.
Stalin, in genere, non si faceva vedere allo Smolny. Più cresceva la pressione delle masse rivoluzionarie e maggiore diventava la portata assunta dagli eventi, più Stalin si manteneva nello sfondo, più tenue diveniva il suo pensiero politico e più debole la sua iniziativa. Fu così nel 1905; fu così sul finire del 1917. La stessa cosa si è ripetuta in seguito ogni qualvolta grandi problematiche storiche scaturirono dall'arena mondiale. Quando divenne chiaro che una pubblicazione dei verbali del 1917 avrebbe solo rivelato un buco nell'Ottobre nella biografia di Stalin, gli storici di regime inventarono la leggenda del "centro funzionale". Una spiegazione di questa storia - largamente diffusa durante questi ultimi anni - diviene un elemento necessario di qualsiasi storia critica della rivoluzione d'ottobre.
Alla conferenza del Comitato Centrale tenutasi a Lesny il 16 di ottobre, uno degli argomenti contro l'insurrezione era il fatto che "noi non abbiamo neppure un centro". Su suggerimento di Lenin il Comitato Centrale decise senza indugiare, in quella frettolosa seduta, di compensare a tale mancanza. Sul verbale si legge: "Il Comitato Centrale organizza un centro militare rivoluzionario composto dai seguenti membri: Sverdlov, Stalin, Bubnov, Uritzky e Dzerzhinsky. Questo centro diviene parte costituente del comitato rivoluzionario del Soviet". Questa risoluzione, che tutti avevano dimenticato, fu riscoperta per la prima volta negli archivi nel 1924 e prese ad esser citata come il documento storico più importante. Così Yaroslavsky scrisse: "Quest'organo (e nessun altro) guidò tutte le organizzazioni che presero parte all'insurrezione (le unità militari rivoluzionarie, le Guardie Rosse, ecc.)". Le parole "e nessun altro" rivelano piuttosto chiaramente l'obiettivo di questa costruzione post facto. Ma Stalin lo ha descritto ancor più francamente: "Nello staff del centro funzionale chiamato a guidare l'insurrezione, Trotsky, piuttosto stranamente [...] non era incluso". Per poter essere nella posizione di sviluppare tale idea, Stalin fu costretto ad omettere la seconda metà della risoluzione: "Questo centro diviene parte costituente del comitato rivoluzionario del Soviet". Se si tiene in mente che il Comitato Militare Rivoluzionario era sotto il comando di Trotsky, non è difficile comprendere che il Comitato Centrale si limitava a nominare i nuovi compagni che dovevano aiutare coloro che già stavano al centro del lavoro. Né Stalin né Yaroslavsky hanno mai spiegato, inoltre, perché il "centro funzionale" venne ricordato per la prima volta solo nel 1924.
Tra il 16 ed il 20 di ottobre, come abbiamo visto, l'insurrezione imboccò con decisione la strada sovietica. Il Comitato Militare Rivoluzionario, sin dal momento della sua nascita, era direttamente alla leadership non solo della guarnigione, ma anche delle Guardie Rosse, che dal 13 ottobre in poi erano soggette al Comitato Esecutivo di Pietrogrado. Non rimaneva alcun posto per nessun altro centro direzionale. Né nei verbali del Comitato Centrale, né in nessun altro materiale riguardante in qualche modo la seconda metà dell'Ottobre, si può scoprire la benché minima traccia dell'attività di quest'istituzione che, stando alle supposizioni, era così importante. Nessuno fa un resoconto delle sue attività; nessun compito le viene assegnato; il suo nome non è mai pronunciato da nessuno, per quanto i suoi membri sono presenti alle sedute del Comitato Centrale e prendon parte alle decisioni su questioni che dovrebbero rientrare direttamente nella competenza del "centro funzionale".
Sveshnikov, un membro del comitato di Pietrogrado del partito ch'era in comunicazione quasi continua con lo Smolny durante la seconda metà dell'ottobre, doveva quanto meno sapere a chi rivolgersi per direttive pratiche riguardanti l'insurrezione. Ecco ciò che egli scrive: "Il Comitato Militare Rivoluzionario era nato: da quel momento i vari elementi dell'attività rivoluzionaria del proletariato entrarono in possesso di un centro di guida". Kayurov, ben conosciuto da noi sin dai giorni del Febbraio, racconta come il distretto di Vyborg attendeva con intensità segali dallo Smolny: "All'imbrunire [del 24] arrivò una risposta dal Comitato Militare Rivoluzionario - preparate le Guardie Rosse per la battaglia". Kayurov al momento d'iniziare l'insurrezione aperta non conosceva nessun altro centro. Si potrebbero citare alla stessa maniera le memorie di Sadovsky, Podvoisky, Antonov, Mekhonoshin, Blagonravov e di altri diretti partecipanti alla rivolta. Nessuno di loro ricorda il "centro funzionale" che, secondo Yaroslavsky, si suppone abbia guidato tutte le organizzazioni. Ed infine persino lo stesso Yaroslavsky si limita al semplice resoconto della creazione del centro: sulla sua attività non ha nulla da dire. La conclusione segue da sé: un centro direzionale del quale coloro che avrebbero dovuto essere diretti non sapevano nulla, non esiste agli occhi della storia.
Ma è possibile fornire una ancor più diretta evidenza dell'esistenza fittizia del "centro funzionale". Alla seduta del Comitato Centrale del 20 di ottobre, Sverdlov lesse una dichiarazione dell'Organizzazione Militare dei bolscevichi contenente, come si evince dal dibattito, la richiesta di convocare i propri leader nel momento in cui si sarebbero dovute prender decisioni riguardanti l'insurrezione. Joffé propose di rifiutare tale richiesta: "Tutti coloro che vogliono collaborare possono unirsi al centro rivoluzionario del Soviet". Trotsky propose una formulazione più dolce della mozione di Joffé: "Tutte le nostre organizzazioni possono unirsi al centro rivoluzionario e lì esprimere, nella nostra fazione, tutte le interrogazioni di loro interesse". La decisione, che venne adottata in quest'ultima forma, mostra che v'era un solo centro rivoluzionario, quello affiliato con il Soviet - ovvero, il Comitato Militare Rivoluzionario . Se fosse esistito un qualsiasi altro centro per guidare l'insurrezione, qualcuno avrebbe quantomeno dovuto ricordarsi della sua esistenza - cosa che non fece neppure Sverdlov, il cui nome stava in cima alla lista dello staff del "centro funzionale".
I verbali del 24 ottobre sono, se possibile, ancor più istruttivi al riguardo. Nelle ore immediatamente precedenti la presa del potere nella città, non solo non si parlava del "centro funzionale" dell'insurrezione, ma la stessa risoluzione che l'aveva creata era passata così tanto nel dimenticatoio, negli otto turbinosi giorni che seguirono, che (su mozione di Trotsky) Sverdlov, Dzerzhinsky e Bubnov, furono invitati a tenersi "a completa disposizione del Comitato Militare Rivoluzionario " - gli stessi membri del Comitato Centrale che, secondo la decisione del 16 ottobre, avrebbero già dovuto, anche senza questa mozione, esser divenuti parte dello staff del Comitato Militare Rivoluzionario . La possibilità di tale incomprensione si spiega col fatto che il Comitato Centrale, appena riemerso dalla sua esistenza sotterranea, era ancora, nella sua organizzazione e nei suoi metodi, ben lontano dalla piena potenza degli anni più recenti. La maggior parte dell'equipaggiamento del Comitato Centrale era portata da Sverdlov nel suo taschino della sua giacca.
In quel caldo periodo vennero create, all'ultimo momento di una qualche seduta, non poche istituzioni destinate a cader presto nell'oblio. Alla seduta del Comitato Centrale del 7 ottobre venne creato "un ufficio d'informazioni sulla lotta alla controrivoluzione". Questo fu il nome del primo organo creato per elaborare i problemi dell'insurrezione. Per quanto riguarda il suo personale, nei verbali si legge: "Tre di essi sono eletti dal Comitato Centrale: Trotsky, Sverdlov, Bubnov; ed essi son tenuti a creare tale ufficio". È realmente esistito questo primo "centro funzionale" dell'insurrezione? Ovviamente no, visto che non ha lasciato tracce. Anche l'ufficio politico creato alla seduta del 10 si è dimostrato non vitale e si è risolto assolutamente in nulla: è dubbio ch'esso si sia riunito almeno una volta. In modo da evitare che l'organizzazione pietrogradese del partito e che i leader del lavoro nei distretti venissero separati dal Comitato Militare Rivoluzionario, Trotsky, su suggerimento di Lenin, che gradiva un sistema di doppie o triple assicurazioni, fu incluso, durante la settimana più critica, nei più alti organi amministrativi del comitato di Pietrogrado. Anche questa decisione però rimase solo sulla carta: non venne tenuta alcuna seduta in cui Trotsky era presente. Il cosiddetto "centro funzionale" ha incontrato il medesimo destino. Come istituzione indipendente la sua esistenza non era mai stata prevista, ma esso non esistette neppure come organo ausiliario.
Dei cinque uomini nominati nello staff del "centro", Dzerzhinsky e Uritzky entrarono attivamente e completamente nel Comitato Militare Rivoluzionario solo dopo la vittoria. Sverdlov giocò un ruolo immenso nel collegare il Comitato Militare Rivoluzionario col partito. Stalin non prese per nulla parte al lavoro del Comitato Militare Rivoluzionario e non fu mai presente alle sue riunioni. Negli innumerevoli documenti di testimoni e partecipanti non si incontra mai il nome di Stalin.
Nel compendio ufficiale della storia della rivoluzione, un capitolo speciale è dedicato all'Ottobre. Esso raggruppa, in ordine cronologico, tutte le informazioni tratte dai giornali, dai verbali, dalle memorie dei partecipanti, ecc. Nonostante il fatto che questo compendio fu pubblicato nel 1925, quando la revisione del passato era già in pieno fervore, l'indice in fondo al libro accosta il nome di Stalin ad un solo numero, e quando si apre il libro alla pagina corrispondente si ritrova quel testo già citato della decisione del Comitato Centrale riguardo il "centro funzionale", con Stalin menzionato come uno dei cinque membri. Cercheremmo invano in quel volume - affollato come è anche di materiali di secondaria importanza - informazioni riguardo il lavoro di Stalin nell'Ottobre, sia all'interno del "centro" che fuori di esso.
Definendo in una sola parola la fisionomia politica di Stalin, si potrebbe dire ch'egli, nel partito bolscevico, è sempre stato un "centrista". Cioè, egli tendeva organicamente ad occupare una posizione intermedia tra marxismo e opportunismo. E questa era la forma di centrismo più temuta da Lenin. Ogni singolo segmento dell'orbita staliniana fino al 1924 può esser spiegato come il prodotto di due forze: il suo carattere centrista e la pressione rivoluzionaria di Lenin. L'indegnità del centrismo si dovrebbe rivelare nel modo più pieno sotto i test dei grandi avvenimenti storici. "La nostra situazione è contraddittoria", disse Stalin il 20 di ottobre, giustificando Zinov'ev e Kamenev. In realtà era il carattere contraddittorio del centrismo a rendere impossibile per Stalin l'occupazione di una posizione indipendente nella rivoluzione. D'altra parte, quei tratti che lo paralizzavano in quella grande svolta della storia - vigile attesa e manovrazioni continue- dovevano necessariamente assicurargli una genuina autorità nel periodo in cui fosse iniziato il riflusso del movimento di massa ed i funzionari fossero venuti alla ribalta per consolidare con zelo ciò ch'era stato raggiunto - cioè, per assicurare prima di tutto le loro posizioni da eventuali disturbi. I funzionari, al governo nel nome della rivoluzione, hanno bisogno di prestigio rivoluzionario. Nella sua veste di "vecchio bolscevico", Stalin forniva la più appropriata incarnazione di tale prestigio. Nel riunire le masse, il funzionario incaricato dice loro: "Siamo noi che abbiam fatto questo per voi". Comincia così a prendersi mano libera non solo col presente, ma anche col passato. Il funzionario-storico rifà la storia, corregge biografie, crea false reputazioni. Fu necessario burocratizzare la rivoluzione prima che Stalin potesse diventarne il suo coronamento.
Nel destino personale di Stalin, ch'è di grande interesse dal punto di vista dell'analisi marxista, troviamo una nuova rifrazione della legge di tutte le rivoluzioni: lo sviluppo di un regime creato dalla rivolta passa inevitabilmente attraverso un periodo di flussi e riflussi che si misurano in anni, ed in questi processi i periodi di reazione morale portano alla ribalta quelle figure che, a causa delle caratteristiche loro peculiari, non hanno giocato, e non avrebbero potuto giocare, un ruolo guida ai tempi dell'offensiva rivoluzionaria.
La revisione burocratica della storia del partito e della rivoluzione sta procedendo sotto la diretta supervisione di Stalin. Questo lavoro segna ovviamente le fasi di sviluppo della macchina sovietica. Il 6 novembre (Nuovo Stile) del 1918, Stalin scrisse sulla Pravda, in un articolo per l'anniversario della rivoluzione: "L'ispiratore della rivoluzione, dall'inizio alla fine, fu il Comitato Centrale del partito diretto dal compagno Lenin. Vladimir Ilych viveva allora a Pietrogrado nascosto in un appartamento nel distretto di Vyborg. La sera del 24 ottobre egli venne chiamato allo Smolny per la direzione generale del movimento. Tutto il lavoro d'organizzazione pratica per l'insurrezione fu condotto sotto l'immediata leadership del presidente del Soviet di Pietrogrado, il compagno Trotsky. Si può dichiarare con certezza che il veloce passaggio della guarnigione dalla parte del Soviet, e l'abile direzione del lavoro del Comitato Militare Rivoluzionario, sono dovuti principalmente e soprattutto al compagno Trotsky. I compagni Antonov e Podvoisky erano i suoi principali assistenti ".
Né l'autore di questo libro, né, dobbiamo supporre, Lenin, che stava allora riprendendosi dalla pallottola socialrivoluzionaria, fecero in quei giorni attenzione a questa distribuzione retrospettiva di ruoli e meriti. L'articolo prese una nuova luce solo qualche anno dopo, quando rivelò il fatto che Stalin, già in quei difficili mesi dell'autunno 1918, stava già disegnando, con straordinaria cautela, una nuova immagine della leadership del partito dell'Ottobre. "L'ispiratore della rivoluzione, dall'inizio alla fine, fu il Comitato Centrale del partito diretto dal compagno Lenin". Questa frase è una polemica contro coloro che consideravano - piuttosto correttamente - Lenin come il vero ispiratore dell'insurrezione, e che questi agiva con un considerevole grado di conflitto con il Comitato Centrale. A quel tempo Stalin non poteva ancora far altro che nascondere la sua propria concezione dell'Ottobre dietro lo pseudonimo impersonale del Comitato Centrale. Le sue due seguenti affermazioni - che Lenin viveva nascosto in un appartamento di Pietrogrado e che egli venne chiamato allo Smolny nella sera del 24 per la direzione generale del movimento - erano destinate ad indebolire l'impressione prevalente che il leader dell'insurrezione fosse stato Trotsky. Le successive frasi dedicate a Trotsky suonano, nell'acustica politica di oggi, come un panegirico; in realtà non poteva assolutamente essere dato a Trotsky ruolo minore di quello lì concessogli. Quelle frasi erano ciò che Stalin era costretto a dire per mascherare le sua allusioni polemiche. La complessa costruzione e l'attenta coloritura difensiva di tale articolo "commemorativo", danno una discreta impressione dell'opinione generale prevalente all'epoca nel partito.
In quest'articolo, tra parentesi, non c'è alcuna menzione al centro funzionale. Al contrario, Stalin asserisce categoricamente che "tutto il lavoro di organizzazione pratica dell'insurrezione fu condotto sotto l'immediata leadership di... Trotsky". Ma Trotsky, lo ricordiamo, non era un membro del "centro funzionale". Abbiamo sentito, però, da Yaroslavsky che fu "quest'organo (e nessun altro) che guidò tutte le organizzazioni che presero parte all'insurrezione". La soluzione di quest'auto-contraddizione è semplice: Nel 1918 gli eventi erano ancora troppo freschi nella memoria, ed i tentativi di ripescare dai verbali quella risoluzione su un "centro" che non è mai esistito non potevano risultar vittoriosi.
Nel 1924, quando il più era già scordato, Stalin spiegò nel modo seguente il motivo per cui Trotsky non fu membro del "centro funzionale": "Dobbiamo dire che Trotsky non giocò un ruolo particolare nella rivoluzione d'ottobre, e non potrebbe esser stato altrimenti". In quell'anno Stalin dichiarò apertamente che il ruolo degli storici era quello di distruggere "la leggenda di un ruolo particolare di Trotsky nell'insurrezione d'ottobre". In che modo Stalin ha riconciliato questa nuova versione con il suo articolo del 1918? Molto semplicemente: egli ha vietato a chiunque di citare il suo vecchio articolo. Gli storici che cercano di mediare tra lo Stalin del 1918 e quello del 1924 sono prontamente espulsi dal partito.
Ci sono però testimonianze più autorevoli di quest'articolo di Stalin per il primo anniversario. Nelle note dell'edizione ufficiale degli Scritti di Lenin, sotto la parola Trotskyleggiamo: "Dopo che il Soviet di Pietrogrado divenne bolscevico, egli fu eletto suo presidente, ed in tale funzione organizzò e guidò l'insurrezione del 25 ottobre". Così la "leggenda di un ruolo particolare" era fermamente stabilità nella collezione di scritti di Lenin pubblicata quando l'autore era ancora in vita.
Nei libri di riferimento ufficiali si può seguire di anno in anno questo processo di revisione del materiale storico. Così nel 1925, quando la campagna contro Trotsky era già in piena andatura, l'annuario ufficiale, L'almanacco comunista, poteva ancora scrivere: "Nella rivoluzione d'ottobre Trotsky ebbe la parte più attiva e di guida. Nell'ottobre 1917 egli fu eletto presidente del Comitato Rivoluzionario di Pietrogrado che organizzò l'insurrezione armata". Nell'edizione del 1926 al posto di questa frase venne inserita una breve osservazione neutrale: "Nell'ottobre 1917 egli era presidente del Comitato Rivoluzionario di Leningrado". Dal 1927 la scuola staliniana ha proposto una storia nuova di zecca che è stata incorporata in tutti i libri di testo sovietici. Essendo un oppositore del "socialismo in un solo paese", Trotsky dev'esser necessariamente stato un oppositore della rivoluzione d'ottobre, ma per fortuna esisteva il "centro funzionale" che ha condotto le cose ad un felice esito! L'ingegnoso storico ha solo trascurato di spiegare perché il Soviet bolscevico ha eletto Trotsky come suo presidente, e perché lo stesso Soviet, guidato dal partito, ha messo Trotsky a capo del Comitato Militare Rivoluzionario .
Lenin non era un credulone - specialmente in questioni riguardanti il destino della rivoluzione. Non si poteva mai metterlo a riposo con assicurazioni verbali. Ad una certa distanza egli era inclinato ad interpretare ogni sintomo in senso negativo. Si convinse infine che il tutto veniva condotto correttamente solo lo vide quando con i propri occhi - cioè quando arrivò allo Smolny. Trotsky racconta di questo fatto nella sua collezione pubblicata nel 1924: "Ricordo l'enorme impressione di Lenin quando seppe che avevo chiesto con un ordine scritto ad un reggimento del Litovsky di garantire la pubblicazione degli scritti del partito e del soviet [...] Lenin era in estasi, ed esprimeva i suoi sentimenti con esclamazioni, risate e strofinandosi le mani. Poi divenne silenzioso, riflesse un momento e disse: 'Bene, bene - si può fare anche così. Bisogna solo prendere il potere'. Compresi che solo in quel momento egli si riconciliò col fatto che noi avevamo deciso di rifiutarci di prendere il potere per mezzo di una congiura cospirativa. Fino all'ultima ora egli temeva che il nostro nemico ci avrebbe tagliato la strada e colti impreparati. Solo allora [...] egli si sentì realmente riposato e diede finalmente la sua approvazione al corso che gli eventi stavan prendendo".
Pure questa storia venne in seguito messa in discussione. Nondimeno essa trova un'indiscutibile conferma nella situazione oggettiva. La sera del 24 Lenin provò un ultimo impeto d'allarme, che lo prese con tal forza da indurlo a fare un tardivo tentativo per mobilitare pressioni sullo Smolny da parte di soldati e lavoratori. Quanto violentemente dev'essere cambiato il suo umore quando, allo Smolny poche ore dopo, egli scoprì la situazione reale! Non è cosa ovvia il fatto che egli non poteva dar sfogo alla sua ansietà, ai suoi diretti ed indiretti rimproveri fatti allo Smolny, neanche con poche frasi o con poche parole? Non c'era bisogno di complesse spiegazioni. In ognuna di quelle due riunioni faccia a faccia in quel non così ordinario momento, le fonti d'incomprensione erano del tutto comprensibili. Ed ora esse eran dissolte. Non serviva tornarci sopra. Una frase fu sufficiente: "Si può fare anche così!". Ciò voleva dire: "Forse qualche volta sono stato troppo insistente e sospettoso, ma scommetto che puoi capirmi". Chi non capirebbe! Lenin non era incline ai sentimentalismi. Una sua frase, "Si può fare anche così!", detta con un sorriso particolare, era più che sufficiente a metter da parte tutte le incidentali incomprensioni di ieri e a legare con fermezza il nodo della confidenza.
L'umore di Lenin di quel giorno si rivela con ancora maggior chiarezza nella risoluzione da lui introdotta per mezzo di Volodarsky, risoluzione nella quale l'insurrezione è descritta come "in insolito grado senza spargimenti di sangue, ed in insolito grado vittoriosa". Il fatto che Lenin fece dell'insurrezione tale valutazione, scarsa di parole come al suo solito, ma assai risonante nella sostanza, non fu certo un caso. Egli era solo se stesso, l'autore dei "consigli da lontano", che considerava più corretto pagare un tributo non solo all'eroismo delle masse, ma anche ai servizi svolti dai leader. È difficile dubitare che Lenin avesse addizionali motivi psicologici per far ciò. Egli aveva sempre temuto il corso troppo lento preso allo Smolny, ed egli si affrettava ora ad essere il primo a riconoscere i suoi vantaggi non appena rivelatisi in azione.
Da momento in cui apparse allo Smolny, Lenin prese naturalmente posto a capo di tutto il lavoro, politico, organizzativo e tecnico. Il 29 ci fu a Pietrogrado un'insurrezione di proprietari terrieri. Kerensky si stava muovendo verso Pietrogrado a capo di numerosi squadroni Cosacchi. Il Comitato Militare Rivoluzionario doveva affrontare il compito della difesa. Lenin guidò quest'operazione. Trotsky scrive nella sua collezione: "Un rapido successo è tanto pericoloso quanto una sconfitta. Mai perder di vista il filo degli eventi sottostante; dopo ogni successo occorre dirsi: 'Nulla è ancora raggiunto, nulla è ancora assicurato'; cinque minuti prima della decisiva vittoria, continuare con la stessa vigilanza, la stessa energia e la stessa aggressività, come cinque minuti prima dell'azione armata; cinque minuti dopo la vittoria, e prima che si spengano le prime urla di trionfo, occorre dirsi: 'La conquista non è ancora assicurata, non dobbiamo perdere un minuto' - tale era l'approccio, tale era il metodo d'azione, tale il metodo di Lenin, tale la sostanza organica del suo carattere politico, del suo spirito rivoluzionario".
La summenzionata seduta del comitato di Pietrogrado del primo novembre, nella quale Lenin parlò della sua ingiustificata paura riguardo i Mezhrayontzi, fu dedicata alla questione di una coalizione governativa con menscevichi e socialrivoluzionari. L'ala destra (Zinov'ev, Kamenev, Rykov, Lunarcharsky, Riazanov, Miliutin ed altri) chiedeva con insistenza una coalizione subito dopo la vittoria. Lenin e Trotsky si schierarono con decisone contro qualsiasi coalizione che si estendesse oltre la cornice del Secondo Congresso dei Soviet. "I dissensi", dichiarò Trotsky, "erano ben profondi, prima dell'insurrezione, nel Comitato Centrale e nei grandi circoli del nostro partito [...] La stessa cosa venne detta, allora come oggi, dopo la vittoriosa insurrezione! Non avremo, vedete, nessun tecnico marchingegno. Allora i toni erano forti sì da tentare di spaventarci, così come lo sono ora, per impedirci di far uso della vittoria". Mano nella mano con Lenin, Trotsky intraprese contro i partigiani della coalizione la stessa battaglia che aveva precedentemente intrapreso contro gli oppositori dell'insurrezione. Lenin disse, nella stessa seduta: "Un accordo? Non ne posso parlare in modo serio. Trotsky ha detto tempo fa che un'unione era impossibile. Trotsky lo ha compreso, e da allora non c'è stato miglior bolscevico".
Tra le condizioni più importanti per l'accordo, i menscevichi ed i socialrivoluzionari richiesero la rimozione dal governo di due figure da loro maggiormente odiate - "coloro che sono primariamente colpevoli dell'insurrezione d'ottobre, Lenin e Trotsky". L'attitudine del Comitato Centrale e del partito verso tale richiesta fu tale che Kamenev, l'estremo partigiano dell'accordo - personalmente pronto persino a tale concessione - considerò necessario dichiarare, alla seduta del Comitato Esecutivo Centrale del 2 novembre: "Si propone di escludere Lenin e Trotsky; tale proposta decapiterebbe il nostro partito, e noi non possiamo accettarlo".
Il punto di vista rivoluzionario - favorevole all'insurrezione e contrario alla coalizione con gli Alleanzisti - era detto nei distretti operai "il punto di vista di Lenin e Trotsky". Queste parole, come testimoniano documenti e verbali, divennero un'espressione quotidiana. Nel momento della crisi all'interno del Comitato Centrale, una conferenza di operaie di Pietrogrado adottò all'unanimità una risoluzione osannante "la politica del Comitato Centrale del nostro partito, guidato da Lenin e Trotsky". Già nel novembre 1917, il barone Budberg parla nel suo diario del "nuovo duumvirato, Lenin e Trotsky". Quando nel dicembre un gruppo di socialrivoluzionari decise di "decapitare i bolscevichi", "fu loro chiaro", secondo Boris Sokolov, uno dei cospiratori, che "i bolscevichi più importanti e funesti sono Lenin e Trotsky - è con loro che dobbiamo iniziare". Durante gli anni della guerra civile questi due nomi eran sempre citati congiuntamente, come se essi indicassero un'unica persona. Parvus, un tempo marxista rivoluzionario ed in seguito malizioso nemico della rivoluzione d'ottobre, scrisse nel 1919: "Lenin e Trotsky - questo è il nome collettivo per tutti coloro che senza idealismo hanno ripreso, nei confronti dei bolscevichi, la strada di Rosa Luxemburg, che severamente ha criticato la politica della rivoluzione d'ottobre, applicando le sue critiche similmente a Lenin ed a Trotsky. Lei scrisse: 'Lenin e Trotsky, con i loro amici, furono i primi a dare un esempio al proletariato mondiale. Ed essi restano ancora gli unici a poter esclamare con Hutten: Io ho osato far ciò!". Nell'ottobre 1918, alla trionfante seduta del Comitato Esecutivo Centrale, Lenin lesse una citazione dalla stampa borghese straniera. "Gli operai italiani", disse, "agiscono come se essi non permetterebbero a nessuno di viaggiare in Italia fuorché a Lenin e Trotsky". Di testimonianze del genere ne esistono un'infinità. Esse si ripresentano come un leitmotiv attraverso tutti i primi anni del regime sovietico e dell'Internazionale Comunista. Partecipanti ed osservatori, amici e nemici, coloro che ci sono vicini e coloro che ci sono lontani, tutti hanno unito assieme le attività di Lenin e Trotsky nella rivoluzione d'ottobre con un nodo così stretto che gli storici epigoni non riusciranno né a scioglierlo né a tranciarlo via.